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Fine della corsa, a testa altissima

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Due blackout, un buzzer beater mancato, un supplementare ed una Brescia cinica e precisissima nelle azioni decisive riescono nell’impresa di cancellare il sogno di una squadra che realmente, in ogni sua componente, era intimamente convinta di poter arrivare a conquistare lo scudetto. “Dal primo giorno, da agosto dell’anno scorso, io, Jamion ed i giocatori abbiamo sempre avuto un solo obiettivo: vincere il campionato italiano” afferma un abbattuto Michael Arcieri in sala stampa al termine della battaglia di Gara 4, combattuta finalmente ad armi pari davanti al pubblico che, anche stasera, dimostra di non avere eguali in Serie A. Detta così, con un tono quasi scoraggiato, sicuramente molto frustrato, sembrerebbe l’epitaffio ad una stagione fallimentare, perlomeno molto al di sotto delle aspettative.

Naturalmente, la realtà è molto, molto diversa. E’ vero, perdere brucia, e lo fa ancora di più quando hai la consapevolezza di poter competere contro i più forti, che manca davvero poco, talvolta pochissimo per fare un definitivo salto di qualità verso l’eccellenza. Brucia essere certi, dopo quattro partite (di cui solo una in balia degli avversari), di essere stati eliminati da una squadra forte, probabilmente più forte, ma di aver oggettivamente sprecato un’occasione per sovvertire i pronostici a causa di piccoli particolari, di un tiro che entra ed esce, di piccoli errori tattici che a posteriori paiono evidenti anche se in corso d’opera sembravano poter essere vincenti. Si poteva fare di più? Con un po’ di fortuna certamente sì, magari ci si poteva regalare il ritorno a Brescia lunedì sera. Ma bisogna anche essere onesti nell’osservare come questa squadra, per come è stata costruita ed in rapporto alle grandi potenze attuali del basket italiano, ha probabilmente raggiunto il massimo delle proprie possibilità e, fortuna o no, è comunque fuori da ogni logica pensare razionalmente che sarebbe riuscita a raggiungere l’unico obiettivo stagionale (sebbene ne siano stati realizzati alcuni, seppur secondari, di assoluto prestigio).

Ma la delusione deve finire lì, all’uscita dallo spogliatoio, dopo aver versato lacrime di rabbia e di nostalgia per una stagione che finisce, per compagni che probabilmente non condivideranno più questi momenti con te, per un coach che ha saputo conquistarsi giorno dopo giorno credibilità, rispetto ed amicizia e che sta per mettere un oceano fra sé e questa città che piano piano è diventata casa sua. E’ la storia di ogni stagione, si potrà dire, ma non è così, non lo è perlomeno in questo caso: i legami che questi giocatori, tutti, hanno saputo costruire fra loro e con Trieste non è qualcosa di comune, specie in una squadra costituita da professionisti di altissimo livello con un bagaglio lunghissimo e ricchissimo di esperienze vissute in ogni angolo del pianeta. E’ il coach, è Mike Arcieri, sono loro stessi a raccontarlo, è la quantità di giocatori che ha già accettato nero su bianco di riprovarci l’anno prossimo. Non succede sempre nemmeno a Trieste, anzi se guardiamo al passato una chimica umana ancor prima che tecnica, una comunione così profonda con la comunità si è creata raramente, quasi mai per essere più precisi, e ciò rende gli ultimi sette mesi straordinari ben oltre i risultati, ben oltre il piazzamento, ben oltre il record di vittorie, ben oltre il fatto di aver sorpreso, sbugiardato ed infine incantato gli scriba del basket nazionale.

E quindi no, usciti da quello spogliatoio è necessario rendersi conto che quella appena finita è stata una stagione straordinaria, una stagione che ha riportato il basket ad essere trend topic nei locali e nelle strade di Trieste, la pallacanestro una moda, il palazzetto il palcoscenico di uno spettacolo al quale nessuno vuole mancare domenica dopo domenica. I giocatori sono tornati ad essere rockstar, riconosciuti e fermati per strada, i ragazzini indossano le loro canottiere per andare a scuola ed ascoltano con le loro AirPod il rap ipnotico di un barbuto giramondo che ambienta a Trieste il suo ultimo album. L’unica amarezza vera è realizzare che per rivivere serate come questa, ma anche come quelle dei trionfi su Milano e Bologna, o attenzione, il ritorno del derby regionale, sarà necessario attendere ancora altri cinque mesi. Il retrogusto, una volta risollevata la testa e cancellato dalla memoria visiva Miro Bilan uscire a braccia alzate dal parquet di casa tua, deve al contrario essere dolcissimo, baciato dalla consapevolezza che, se la città -in tutte le sue componenti, amministrative, politiche, economiche e tifose- sarà brava a cogliere questa opportunità, sufficientemente intelligente nel comprendere che il filo che lega la Pallacanestro Trieste al suo futuro è sottile e sottoposto ad ogni tipo di stress test, allora la sconfitta in Gara 4 di una serie di quarti di finale giocata da neopromossa sarà solo il primo step di un percorso di crescita esponenziale, un percorso che la porterà in Europa ed a competere realmente per conquistare finalmente il primo trofeo in cinquant’anni di storia.

E’, naturalmente, il capolavoro di Michael Arcieri, vera anima del rinascimento della pallacanestro giuliana, una benedizione giunta grazie a circostanze fortunate (ringraziamo ancora Luis Scola per non aver inchiodato le sue scarpe a Masnago ed a Cotogna Sports Group per averlo convinto ad accettare una sfida da incoscente) che comprende -e declina- la pallacanestro nella sua essenza, antepone l’aspetto umano a quello tecnico, conosce i giocatori, gli uomini anzi, nel loro intimo, li sceglie anche a costo di sorprendere o spiazzare, perchè investe sulle loro doti di leadership, sulla loro etica umana e professionale, sulla loro costante tensione verso il miglioramento personale, sul loro anteporre i valori della famiglia a tutto il resto, sulla loro capacità di condividere il gioco (“share the game” come gli abbiamo sentito dire numerose volte in questi due anni): il talento ok, ci vuole… ma viene dopo. E, alla fine, guardi le partite, vedi i risultati, leggi la classifica e ne comprendi il motivo. Tutti noi, giornalisti e tifosi, ogni estate e durante ogni stagione facciamo la raccolta delle figurine: suggeriamo questo o quel nome, spariamo quasi a caso speranze di mercato altisonanti, spendiamo e spandiamo soldi non nostri. E poi arriva sempre il giocatore giusto per il contesto e per il compito: arrivano Ariel Filloy e Giancarlo Ferrero, Giovanni Vildera e Francesco Candussi. Ed infine, fra tutti gli altri, arriva la sintesi di tutte le qualità che Arcieri cerca in un uomo: come lui stesso raccontato sul filo della commozione nell’ultima conferenza stampa post partita stagionale, il primo giocatore che avrebbe voluto in squadra già quattro anni fa, intuendone la statura umana e sportiva pur da rinchiuso nella gabbia dorata del Taliercio, è Jeff Brooks. La rinascita dell’americano di passaporto italiano, la restituzione di un patrimonio sportivo alla pallacanestro italiana, la gioia che trasmette per il solo fatto di essere in campo, di poter essere un punto di riferimento per i compagni, la sua esperienza messa al servizio della squadra, l’umiltà nel rendersi operaio per 35 minuti a partita senza risparmiare una goccia di sudore ignorando la carta d’identità (ed il fatto di possedere un palmares che a Trieste nessuno può vantare) lo rende la perfetta metafora della stagione più di ogni altro compagno, magari talvolta più decisivo o spettacolare. E’ positività, è la felicità di essere tornato a donare gioia a suo figlio che lo guarda giocare, è anche la feroce competitività, è la determinazione di voler vincere sempre, ogni singola partita. E’ quello che Trieste dovrà diventare in ogni suo aspetto da lunedì prossimo.

Si ripartirà da lui, dai tre connazionali che come lui hanno deciso di fare di Trieste il loro rifugio sicuro (per Michele Ruzzier lo è già da 32 anni). Si ripartirà, anche, da un Palatrieste ribollente di passione ed amore per la sua squadra, che talvolta ha sbandato, in una singola, maledetta occasione deragliato. Ma che è anche (di gran lunga) il terzo più numeroso in Italia dietro a Milano e Bologna e per distacco, come ambiente, quello più simile alle grandi piazze dell’est europeo. Si riparte anche da una proprietà, quella di Paul Matiasic, che ha mantenuto ogni singola promessa da quando ha acquisito il club: l’avvocato istro-californiano non ha mai fatto mancare il suo sostegno quando necessario: dall’arrivo di Valentine come ciliegina sulla torta iniziale a quello di Sean McDermott con il costoso upgrade al 6+6 alla vigilia delle Final Eight, così come l’arrivo in extremis di Kylor Kelley nella speranza di arginare Bilan. Un sostegno anche morale, in linea perfettamente parallela con i valori propugnati dal GM, una comunione di intenti ed una coerenza che lo rendono uno fra i presidenti più affidabili e quindi credibili dell’intero movimento. Iniziano anche i lunghi mesi della curiosità, dello scouting, degli annunci, primo fra i quali quello più atteso e probabilmente più importante: il nuovo allenatore, quello che dovrà traghettare la Pallacanestro Trieste nella sua nuova dimensione. Ci arriveremo per gradi. Ci arriveremo per gradi. Ora è solo il momento dei ringraziamenti e degli applausi, che magari, chissà, il club si ricorderà di raccogliere celebrando i suoi primi cinquant’anni di vita o anche, vista la grande eco ancora viva negli Stati Uniti, i quarant’anni da quando un giovane uomo in sneakers neroarancio decollò per mandare in frantumi un cristallo a pochi chilometri da via Flavia. Uno che una volta disse: “Avrò segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena, e altre diciassette volte a meno di dieci secondi alla fine, ma nella mia carriera ho sbagliato più di 9.000 tiri. Ho perso quasi 300 partite. Per 36 volte i miei compagni si sono affidati a me per il tiro decisivo… e l’ho sbagliato. Ho fallito tante e tante e tante volte nella mia vita. Ed è per questo che ho vinto tutto

(Photo Credit: Fabio Angioletti)