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La questione ricorso è una matassa da risolvere in fretta

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L’improvvisa pubblicazione delle motivazioni della sentenza d’appello che ha restituito cinque dei sedici punti comminati a Varese, avvenuta senza essere preannunciata giovedì scorso aggirando le stringenti norme di tutela della privacy che avevano fino a quel momento impedito alla FIP di renderle note, rende se possibile ancora più complicata la strada dell’eventuale ricorso per Trieste, che ora ha veramente pochi giorni per decidere se, come ed in che sede agire per far valere le proprie ragioni e provare ad evitare la retrocessione maturata sul campo.

La tesi della procura federale, che conferma in appello la colpevolezza del club lombardo così come sancita in primo grado respingendo punto per punto le argomentazioni portate a difesa di Varese dal suo pool di avvocati accusando il club lombardo di ledere addirittura l’immagine stessa del movimento cestistico nazionale, sancisce nelle ultime due righe del verboso ed articolato dispositivo la restituzione dei famigerati cinque punti in classifica giustificandoli con il divieto di “reformatio in pejus” garantito dall’ordinamento giuridico – a dire la verità solo rigurado al diritto procedurale penale e non come principio giuridico generale. In altre parole, intende la Federazione, l’intento della penalizzazione irrogata ad inizio aprile era solo quella di impedire a Varese di partecipare ai playoff, ma alla luce della sconfitta subita a Venezia, tale sanzione avrebbe provocato quasi certamente anche la retrocessione, che non era il fine della punizione. Ragionamento in apparenza inattaccabile, ma dopo un’attenta lettura delle motivazioni, appare giustificata sia la ritrosia della Federazione a renderle pubbliche, sia la sacrosanta decisione di Varese di rinunciare ad un ulteriore ricorso presso il tribunale sportivo del CONI, dove, con un’accusa dimostrata così grave, avrebbe rischiato concretamente di vedersi riassegnare la penalizzazione inizialmente richiesta dalla procura federale, e cioè la retrocessione immediata in A2 (ridotta già in primo grado, come richiesta in subordine, ai famosi 16 punti di penalizzazione, che costerebbero comunque a Varese il declassamento nella serie inferiore). Non è invece chiaro il motivo che ha spinto la FIP a rendere nota urbi et orbi la formula della sentenza dopo settimane nelle quali si era rifugiata nelle trincee del rispetto della privacy.

E’, in effetti, una formula che non convince, ed anzi evidenzia alcune pecche sia dal punto di vista giuridico che da quello logico. Innanzitutto vi è una curiosa confusione fra causa ed effetto della sanzione: infatti, se viene commesso un illecito, deve essere applicata una sanzione (scelta fra un minimo ed un massimo previsto dall’articolo di legge, in dipendenza della gravità dell’illecito stesso), prescindendo dalle conseguenze secondarie che tale sanzione possa provocare. E’ un po’ come se, in un caso di commissione di reato, fosse applicata in primo grado una pena a cinque anni di carcere, che però, dato che nel tempo intercorrente fra la sentenza di primo grado ed il processo d’appello l’imputato avrebbe perso il lavoro, in appello -confermando la dimostrazione di colpevolezza- venisse ridotta a sei mesi al solo fine di consentire al condannato di conservare la sua posizione lavorativa: è, chiaramente, un nonsense giuridico.

Senza contare il fatto che, fra le motivazioni della sentenza di penalizzazione di 16 punti in primo grado, si usa la formula “che determinerebbero l’automatica esclusione dai playoff nella stagione in corso“. A parte l’evidenza matematica dell’affermazione, non si fa menzione del fatto che l’esclusione dai playoff fosse il solo intento della sanzione (pur ammettendo per assurdo che in questo caso un intento della sanzione abbia senso giuridico), anche perché portando Varese all’ultimo posto in classifica a quattro punti dalla penultima a cinque giornate dal termine, il rischio retrocessione era fin da subito grave ed evidente per tutti. Immediata retrocessione in A2 che, peraltro, era stata la prima richiesta del procuratore federale. Di conseguenza, delle due l’una: o l’intento iniziale -correttamente- non era solo quello di impedire la partecipazione ai playoff, oppure già infliggendo la penalizzazione di primo grado si prevedeva di ridurla in appello.

Non entrando nemmeno nel merito della questione Tepic, nelle motivazioni dell’appello la stessa formula sopra citata diventa “ritenendo congrua ed equilibrata la richiesta subordinata di 16 punti di penalizzazione (…) atta a far conseguire l’esclusione della società dalla partecipazione ai playoff (…) va rimodulata quella a carico della società in relazione alla classifica della Serie A alla data del 26 aprile 2023 ad evitare che essa si risolva in una sostanziale reformatio in pejus e va determinata 11 punti di penalizzazione in classifica da scontarsi nella corrente stagione sportiva”. In altre parole, usando parole ben diverse da quelle utilizzate in primo grado ma citandole come se fossero riprese in senso letterale, in appello viene affermato che in effetti l’unico fine della Procura era quello di escludere Varese dai playoff, particolare che però non appare affatto evidente, e che quindi, alla luce della sconfitta della squadra lombarda che non le avrebbe permesso di salvarsi, a salvarla ci pensa la federazione stessa.

Ci si potrebbe chiedere cosa sarebbe successo se Varese avesse perso un’altra partita retrocedendo comunque, oppure, caso ancora più curioso, se ad essere deferito fosse stato un club che ai playoff non ci sarebbe andato comunque e che sarebbe, invece, stato invischiato nella lotta salvezza: quale sarebbe stato l’intento della giustizia (a quel punto ad personam) in tal caso? Ovviamente è una domanda alla quale è impossibile dare una risposta.

Ciò che appare evidente è che la sentenza d’appello presenti aspetti che definire maldestri è piuttosto riduttivo. Ma è anche evidente che tale pasticcio danneggi direttamente in prima istanza la squadra che avrebbe potuto iscriversi al posto di Varese, che leggendo entrambe le sentenze non ne avrebbe avuto titolo. E, in subordine, la squadra che alla fine del campionato è stata retrocessa da penultima a causa di un sofismo verbale, indipendentemente dal fatto che la procura federale abbia agito in buona fede ed in totale libertà di giudizio, aspetti che diamo entrambi per scontati.

Per questo motivo Trieste ha tutto il diritto, se non l’obbligo, di agire in giudizio a tutela delle proprie ragioni sportive ed economiche. Qui non si vuole discutere sul fatto che la retrocessione sul campo dei giuliani sia ineccepibile, ma il punto fondamentale è che se esistono delle regole, tali regole vanno rispettate da tutti e la giustizia non può in alcun modo essere adattata al soggetto che non le rispetta e tantomeno ai suoi obiettivi. Non è prevedibile quali siano le reali possibilità di successo di un’azione in tal senso, ma questa è una questione di principio sulla quale non è possibile sorvolare, per il bene del movimento stesso che altrimenti si troverebbe ostaggio di un precedente pericoloso ed imbarazzante. Pur riconoscendo che le probabilità di esibirsi il prossimo anno nel campionato cadetto siano vicine al 100%, è indispensabile che Trieste dia un segno di forza, di presenza, di pretesa di essere rispettata, anche a costo di diventare “indigesta” alla stanza dei bottoni romana.

Quali sono le vie per agire? Il presidente De Meo ha affermato nei giorni scorsi che la società sta ancora valutando il da farsi avvalendosi dell’assistenza di un prestigioso studio legale milanese. Trieste non ha merito per intervenire nella vicenda della giustizia sportiva, in altre parole non può ricorrere avverso la sentenza d’appello che ha condannato Varese a 11 punti di penalizzazione in quanto non è parte attiva né passiva della questione. Tutte le interpretazioni ed i dubbi suscitati dalle due sentenze della procura federale si riducono, alla fine, al solo esercizio di espressione di opinioni personali, senza possibilità di discuterne nella stessa sede. Sarebbe dunque necessario adire alle vie della giustizia ordinaria, nella fattispecie al TAR, chiedendo che le cause del danno subito a causa di una sentenza che la Società giudicherebbe errata vengano eliminate (e dunque venendo ripescata come diciassettesima partecipante al prossimo campionato) o, in subordine, che venga risarcito il danno economico subito per lo stesso motivo: in tale secondo caso la Federazione potrebbe agire in autotutela, al fine di evitare di dover sborsare un’ingente somma di denaro, riammettendo Trieste al massimo campionato. Quali siano i tempi di reazione da parte del Tribunale Amministrativo Regionale è difficile prevederlo, anche se le deadlines dettate dall’inizio delle stagioni sportive potrebbero determinare un’accelerazione decisionale. E’ un pertugio sottile e fugace, agire tempestivamente potrebbe fare la differenza ed in ogni caso bisognerebbe poi avere il tempo di riorganizzarsi dal punto di vista sportivo in dipendenza della categoria nella quale si dovrebbe competere nella prossima stagione, magari cercando di trattenere quelli che attualmente sono i “pezzi pregiati” ancora per poco sotto contratto. Ma pur riconoscendo che le probabilità di esibirsi il prossimo anno nel campionato cadetto siano vicine al 100%, è indispensabile che Trieste dia un segno di forza, di presenza, di pretesa di essere rispettata, anche a costo di diventare “indigesta” alla stanza dei bottoni romana.