PALLACANESTRO TRIESTE – PALLACANESTRO BRESCIA: 70-80
Pallacanestro Trieste: Obljubech n.e., Kelley 3, Deangeli (k), Uthoff 8, Ruzzier 12, Campogrande n.e., Candussi 6, Brown 17, Brooks 5, McDermott 11, Johnson 2, Valentine 6.
Allenatore: J. Christian. Assistenti: F. Taccetti, F. Nanni, N. Schlitzer.
Pallacanestro Brescia: Bilan 7, Ferrero n.e., Dowe, Della Valle 12, Ndour 17, Burnell 9, Tonelli n.e., Ivanovic 11, Mobio, Rivers 18, Cournooh 6, Pollini n.e.
Allenatore: P. Poeta. Assistenti: M. Cotelli, G. Alberti, D. Moss.
Progressivi: 23-11 / 41-29 // 56-57 / 70-80
Parziali: 23-11 / 18-18 // 15-28 / 14-23
Arbitri: Rossi, Perciavalle, Patti.
“Chi vince esulta, chi perde spiega”. L’adagio coniato da Julio Velasco, divenuto uno standard in ogni sport nel corso degli anni, ha indubbiamente una inattaccabile base di verità. Lasciamo, dunque, che Peppe Poeta, tornato improvvisamente a sorridere dopo il muso lungo di lunedì sera, e la sua Leonessa Brescia esultino per la meritata vittoria sul campo neutro del Palaverde e tentiamo di spiegare l’esito di Gara 3 di questa serie di gran lunga più equilibrata di quanto la classifica finale della stagione regolare, i precedenti in campionato e Gara 1 dei playoff avrebbero facilmente lasciato presagire.
Partiamo da un presupposto, tanto lapalissiano quanto inattaccabile: Brescia ha saputo ammortizzare il colpo di un primo tempo preoccupante e letteralmente a senso unico in favore di una Trieste non arginabile, ha ritrovato energie negli spogliatoi, dai quali è uscita con l’atteggiamento di una squadra che ha perfettamente capito che i playoff sono decisamente un’altra cosa rispetto alla stagione regolare. Nei playoff ci vogliono attributi, ci vuole un deciso upgrade di intensità difensiva, è indispensabile la capacità di comprendere il momento dell’incontro, trovare le contromisure, avere la capacità e la lucidità per metterle in pratica in corso d’opera. Se in pochi secondi più di un minuto nel terzo quarto la Germani annulla interamente il gap con cui aveva terminato i primi 20 minuti, significa in modo incontrovertibile che ha perfettamente compreso, per l’appunto, cosa sia necessario fare per vincere una partita che vale una serie nella post season. Brescia rientra in campo con il sacro furore di chi vuole vincere, raddoppia, triplica, pressa a tutto campo, non concede linee pulite di passaggio sul perimetro, non consente di penetrare, cattura tutti i rimbalzi gettandosi con furore su ogni pallone. Significa anche che dall’altra parte c’è una squadra che non dimostra di avere la stessa capacità come ha dimostrato di non averla in Gara 1, non è capace di reagire (come spesso accaduto durante la stagione) alle fiammate degli avversari che fruttano break importanti e che quasi sempre si dimostrano decisivi. A Treviso i biancorossi al ventunesimo perdono l’inerzia della partita esattamente come avvenuto ai loro avversari in Lombardia nel secondo quarto di Gara 2, e non la riconquistano letteralmente più: non riescono a costruire tiri con raziocinio, non riescono nemmeno a sfruttare iniziative isolate e fuori logica come spesso accaduto in passato, anche perchè la versione post season di Denzel Valentine è perlomeno discutibile non solo come personalità e come precisione ma proprio come convinzione ed intensità, e stavolta anche il Michele Ruzzier orfano di Colbey Ross, che in passato aveva mostrato il suo volto migliore, incappa in una serata difficilissima. Il solo Markel Brown ci mette la solita garra, la cattiveria agonistica che gli impedisce di arrendersi in qualunque situazione, ma è davvero troppo poco contro sette indemoniati che si mettono a non sbagliare più nulla. Trieste perde nonostante le percentuali migliori sia da due che da tre e la prevalenza a rimbalzo, pagando però un consistente numero di possessi in meno rispetto a Brescia, che arriva al tiro 10 volte più di Trieste, le 16 palle perse e l’enorme differenza nel numero di conclusioni dalla lunetta.
Tutto vero, bisogna alzare la mano autoaccusandosi della responsabilità della sconfitta come avviene in occasione dei falli commessi, perché un risultato nella pallacanestro non arriva mai per caso.
Però…
Però, stavolta, dopo una stagione passata a gettare acqua sul fuoco delle polemiche, ad assecondare la granitica volontà della società che si rifiuta di parlare di arbitraggi, a cercare di trovare il buono residuo in una classe arbitrale in preoccupante declino dal punto di vista tecnico e, ciò che è più grave, sotto quello caratteriale con questo irritante sfoggio di becero quanto ingiustificato protagonismo fine a sé stesso, dopo la qualità dell’esibizione dei signori Rossi, Percivalle e Patti non possiamo più davvero trovare spiegazioni plausibili, né possiamo più raccontare una sconfitta (o, specularmente, una vittoria), né, tantomeno, vogliamo più farlo, senza parlare anche della loro prestazione. Perché lo spettacolo scadente di un arbitraggio che esibisce platealmente un metro arbitrale ondivago fra primo e secondo tempo, così poco equanime nel valutare episodi simili sui due lati del campo o sulle due panchine rischia davvero di indirizzare risultato, serie e stagione verso un lato piuttosto che un altro. Non certo in maniera deliberata o con la precisa e precostituita volontà di favorire uno e danneggiare l’altro, no, la buonafede rimane l’ultimo tabù al quale, in modo naïf, vogliamo rimanere aggrappati. Ciò nonostante, se ad indirizzare un campionato è il sig. Rossi più del numero di palle perse, delle percentuali da tre o dell’assenza di Colbey Ross, allora il basket ha un problema, e bello grosso. Chi perde spiega: vorremmo, però, che venisse spiegata anche la sudditanza psicologica sistematica nei confronti di Amedeo Della Valle e Miro Bilan da parte del trio in grigio. Saranno anche MVP, per l’amor del cielo. Magari se lo saranno anche meritato, anche se su queste pagine non abbiamo mai fatto mistero della dualità fra l’evidenza dell’efficacia del gioco del centro croato e la noia mortale che proviamo nell’ammirarlo. Ma se Jayce Johnson si ritrova tre falli sul groppone dopo cinque minuti solo per essere stato energico nel contrastare il totem bresciano, allora Houston, forse abbiamo un problema, anche se il regolamento non consente il body check a doppia mano. Se sei occhi non si accorgono che lo stesso Bilan commette una infrazione mista fra passi e doppio palleggio che (date le sue dimensioni) avrebbe notato anche un habitué dell’Istituto De Rittmeyer per ciechi, allora qualcuno ha bisogno di un veloce corso di aggiornamento. Se a Ruzzier non viene convalidato un canestro cancellato da una stoppata arrivata dopo che il pallone ha toccato il tabellone, almeno ci si può consultare a metà campo per essere certi, ma proprio certi che tutti e tre abbiano visto la stessa cosa. Se Brescia, soprattutto, difende per venti minuti mettendo le mani addosso costantemente utilizzando il body check a doppia mano di cui sopra, senza che venga sanzionato letteralmente mai a differenza di quanto avvenuto nei primi minuti, se ciò nonostante la squadra che difende duro segna 26 punti su 80 dalla lunetta mentre all’altra, che difende visivamente in modo più blando, ne vengono concessi 17 in meno, se ogni singola entrata triestina viene sporcata da contatti, trattenute, ginocchiate e gomitate catalogate come eccesso di svenevolezza, allora è certamente vero che gli ospiti approccino l’incontro come devono, ma è anche vero che godano di una tutela che li asseconda nella corrida che mettono in scena. E che, alla fine, innervosisce a dismisura, scoraggia ed abbatte il morale di giocatori che avrebbero pure in abbondanza argomenti per essere abbattuti senza il boost in grigio. Per l’amor del cielo, una grande squadra dovrebbe infischiarsene, andare avanti per la sua strada e basarsi sul suo talento senza lasciarsi influenzare ed infastidire. Ed invece Trieste ci cade mani e piedi, sbrocca letteralmente beccandosi 5 falli tecnici, fra i quali i due che costano l’espulsione ad un infuriato Markel Brown, oggettivamente troppi -a memoria d’uomo, mai visti in tale misura- ma anche figli di proteste davvero troppo plateali (sanzione che, peraltro, non tocca al coach avversario quando durante il difficile primo tempo della sua squadra, mette entrambi i piedi in campo per protestare a muso duro contro una decisione che non gradisce). Ci sarà il tempo di maturare, magari non in questa stagione, ma nel prossimo step del progetto sarà indispensabile abituarsi a reagire anche a questo trasformando la frustrazione in energia positiva. Ma non si può nemmeno far finta che perlomeno questa Gara 3, qui ed oggi, non ne sia stata pesantemente influenzata.
Ora, dopo interminabili 6 trasferte seguite a quel maledetto Trieste-Trento, si torna finalmente in via Flavia: in effetti, il fatto di essersi conquistata il vantaggio del fattore campo ma di doverselo giocare in un palazzetto tradizionalmente ostile davanti a 700 tifosi amici ed un numero di tifosi ospiti che non sarebbe di certo stato così nutrito se la partita si fosse giocata al PalaTrieste (così come probabilmente le tutele di cui sopra non sarebbero risultate così smaccatamente partigiane), è qualcosa su cui Trieste, intesa come movimento tout court, può solo rimproverare sé stessa. Ma sabato sera l’ambiente tornerà ad essere quello più adeguato per l’importanza dell’evento e per la credibilità che questa squadra si è conquistata strada facendo contro l’opinione di gran parte dei grandi commentatori del basket italiano. Rimangono poche ore per valutare le condizioni del polpaccio di Colbey Ross, altrimenti si riproporrà il solito quesito su chi escludere: McDermott a Treviso si è rivelato fra i migliori in campo, al tiro è una sentenza anche se non conclude letteralmente mai da sotto, difende come un indemoniato e si è dimostrato psicologicamente pronto quando la serie lo ha chiamato in causa. Tenerlo seduto in tribuna potrebbe essere un rischio davvero grosso, anche se non riusciamo ad immaginarci un mondo in cui Jamion Christian abbia il coraggio di rinunciare a Denzel Valentine o Markel Brown. Difficilmente ad essere escluso sarà uno dei due “cinque” americani: se al Palaverde Kelley non fosse stato a referto, il terzo fallo di Johnson (eventualità che potrebbe facilmente ripresentarsi) avrebbe privato il coach di un intero reparto per 37 minuti: ipotizzare un numero nuovamente elevato di falli subiti da Miro Bilan non è effettivamente un azzardo eccessivo…
Ultima nota a margine: Trieste deve tenersi stretta non solo la proprietà e la dirigenza americana, ma anche e soprattutto la sobrietà, la classe e la facilità nel saper stare al mondo che solo uomini del livello di Paul Matisic e Mike Arcieri possono permettersi di sfoggiare. Perché, detta in modo franco ed al netto dell’eccitazione del momento, assistere al discutibile spettacolo di un proprietario di una squadra di vertice del basket italiano seduto nelle prime file del Palaverde, peraltro in un momento nel quale sa di avere la partita in pugno ma con la contesa ancora in corso, battibeccare prendendosi a male parole con Michele Ruzzier (le cui proteste, semmai, avrebbero dovuto essere rilevate e sanzionate dagli arbitri e non dal signor Ferrari), per poi dedicarsi a continuare l’alterco con gli spettatori giustamente (e civilmente) intervenuti, lascia interdetti quando non esterrefatti. La classe, detto in una serata in cui molti triestini hanno percorso 300 chilometri sotto un diluvio continuo, non è davvero acqua.