tsportinthecity

9. It’s gotta be the shoes!

Tempo di lettura: 13 minuti

Sliding Doors

Letteralmente, “porte scorrevoli”. In senso figurato, è il momento topico di un evento o di una storia che può cambiarne imprevedibilmente la piega e cambiare irrimediabilmente il destino e la vita di una o più persone che ne sono coinvolte, frutto di una scelta del tutto inconsapevole, ma pur sempre di una scelta, presa di fronte ad almeno due opzioni, egualmente disponibili allo stesso momento e ad apparente parità di altre condizioni

(nella foto sopra: le Nike Air Jordan 1 modello Shattered Backboard)

Quella del 1984 non è una grande stagione per i Tar Heels di North Carolina University. Eppure, appena due anni prima, nel 1982, avevano vinto la March Madness grazie ad un tiro a 15 secondi dalla fine di un fenomenale rookie, ma coach Dean Smith, allora, poteva contare anche su James Worthy, volato con un anno di anticipo fra le braccia di Pat Riley ai Lakers di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar. Il match winner del collegiate basket 1982, fino all’ultima azione della finale con gli Hoyas di Georgetown, era considerato un buon giocatore, ma tutto sommato solo uno dei tanti ottimi prospetti sparsi fra i 51 Stati. Aver riportato a Chapel Hill il titolo dopo decenni, provocando festeggiamenti sfrenati in tutto il North Carolina durati settimane, lo rende improvvisamente una sorta di eroe nazionale, gli dona celebrità, lo eleva agli onori della cronaca sportiva in tutta America e lo mette già al primo anno di università sotto gli occhi dei famelici scout dell’NBA.

Ma gli ex campioni NCAA, due anni dopo, arrancano, così come colui che nel tempo è divenuto il loro leader incontrastato in campo: Michael Jordan non brilla come nelle stagioni precedenti, è impegnato piuttosto a perfezionare particolari tecnici e qualità difensive affidandosi alle amorevoli cure di coach Smith, caratteristiche indispensabili se vorrà avere qualche possibilità di seguire le orme del suo ormai celebre ex compagno e lasciare il campus di Chapel Hill alla fine del terzo anno, dichiarandosi eligibile per il draft dei professionisti già nel giugno del 1984. Privi dello strapotere di Michael, a metà marzo i biancoazzurri vengono eliminati nelle semifinali della East Region dagli Indiana Hoosiers senza che ciò costituisca una sorpresa per nessuno. Michael torna dai genitori a Wilmington, poche miglia a sud del campus dove ha trascorso gli ultimi tre anni. La decisione che lo attende è cruciale, ma per niente facile da prendere: lui sarebbe propenso a lasciare subito l’università, ma suo padre James e soprattutto sua madre Deloris, due onesti lavoratori alla ricerca di riscatto sociale attraverso il successo dei figli, sono fermamente contrari. Ben venga la pallacanestro, ma Michael e sua sorella Roslyn, di un anno più piccola e che frequenta lo stesso college, devono ottenere la laurea, perché non si sa mai cosa la vita potrebbe riservare loro.

Proprio in quei giorni, in un ufficio della Pro Serv Inc., agenzia di Sport Management con sede a Washington che già rappresenta centinaia di atleti americani di primo livello, un’idea rivoluzionaria prende forma nella testa di uno degli agenti più esperti, David Falk. La Pro Serv cura gli interessi di molti giocatori dell’NBA, compreso James Worthy, ma è specializzata soprattutto in tennisti da top ten, come Jimmy Connors, Stan Smith e Arthur Ashe. Per ognuno di questi atleti, ciascuno dei quali è considerato una società di comunicazione e marketing a sé stante (nonché una fabbrica di soldi vivente), viene creata una linea di abbigliamento o di attrezzature che porta il suo nome accanto al marchio, come la racchetta Head “Ashe” o le scarpe Adidas “Stan Smith”. Attività relativamente facile quando si tratta di campioni in sport individuali di fama mondiale, ma mai provata negli sport di squadra, dove i giocatori sono trattati sempre collettivamente a livello di franchigia o addirittura facendo fronte comune con l’intera lega. La notorietà raggiunta dal ventiduenne Michael Jordan nella NCAA, il campionato di basket più seguito negli Stati Uniti, il suo mood, la sua risolutezza in campo e nelle interviste convincono Falk a provare ad aprire una nuova strada, una strada rischiosa perché inesplorata e dai risultati incerti, ma potenzialmente dirompente per il mondo del marketing. Ad aprile l’agente telefona a Winnington e chiede di parlare con James Jordan, con il quale prende appuntamento nel North Carolina per quel fine settimana. I genitori di Michael ascoltano il progetto di Falk, che peraltro gode già di discreta fama nell’ambiente, e convincono il figlio a firmare il contratto con l’agente di DC, una relazione che durerà fino al ritiro di Jordan nel 2003.

Il tiro di Michael Jordan che vale il titolo NCAA 1982

Rappresentato da Falk, il 19 giugno Michael viene scelto alla terza chiamata del primo giro dai Chicago Bulls, dopo il centro nigeriano Akeem Olajuwon, che va agli Houston Rockets, e Sam Bowie, scelto dai Portland Trail Blazers. I Bulls, a dire la verità, non avrebbero nemmeno puntato su di lui, scoraggiati dal deludente ultimo anno al college e dalla sua inesperienza, ma non riuscendo a negoziare la chiamata che li avrebbe portati all’anelato centro Jack Sikma, devono fare di necessità virtù. Dopo il relativo successo ai draft, ora Falk vuole provare ad attuare il suo piano, il vero motivo che lo ha portato a casa Jordan un paio di mesi prima. Vorrebbe proporre Michael alla Converse per una sua linea personalizzata, ma l’azienda americana leader nella produzione di scarpe da basket, e sponsor tecnico dell’NBA, ha già i suoi testimonial, Magic Johnson e Larry Bird, e non ci pensa nemmeno ad anteporre ai giocatori di pallacanestro più famosi del mondo un rookie semisconosciuto. Jordan andrebbe volentieri alla Adidas, che, fra gli altri, già veste i piedoni di Jabbar. L’azienda tedesca accoglierebbe a braccia aperte anche Jordan, ma confessa a Falk di non avere tecnologie e risorse per creare una linea di scarpe dal nulla, oltretutto con le caratteristiche che nel frattempo Michael ha imposto, e deve rinunciare al contratto. Falk ha in serbo un’ultima strada, in salita e rischiosa, ma è ormai abituato a fidarsi delle sue intuizioni, e propone a Michael di ascoltare l’offerta di una piccola azienda di Beaverton, nell’Oregon, che si è guadagnata negli ultimi due anni una certa fama nella produzione di scarpe da atletica, soprattutto per la corsa. Né Falk né Jordan sanno che negli ultimi mesi Sonny Vaccaro, visionario manager della Nike, aveva già messo gli occhi su Michael, e farebbe carte false per renderlo il principale testimonial della sua azienda, soprattutto per risollevarne le finanze impantanate da mesi, e che aveva chiuso il primo trimestre addirittura in perdita. Al culmine di una incredibile congiunzione astrale, a fine giugno Falk contatta proprio Vaccaro, che invita atleta ed agente a visitare il piccolo stabilimento nello sperduta periferia di Portland. Michael, però, non ne vuole proprio sapere, si rifiuta addirittura di ascoltare l’offerta: la Nike non fa scarpe da basket che si possano definire tali e, soprattutto, non la conosce nessuno. Falk, allora, ricorre al vecchio metodo: va a casa Jordan e parla con James e Deloris, cercando di convincerli a far ragionare il figlio. Per la seconda volta, è Deloris a consigliare Michael: vai almeno a vedere quello che hanno da offrire, farai sempre in tempo a rifiutare al termine della visita. Mike e David volano in Oregon. A Beaverton è proprio Sonny Vaccaro, al quale non sembra vero di avere in ufficio l’MVP delle finali del 1982, a concretizzare la magia. Magia, a dire la verità, aiutata da una molto reale pioggia di soldi: Nike, che ai suoi testimonial fino a quel giorno non aveva mai offerto più di 100.000 dollari, intuisce che a Jordan non può rinunciare, e gli offre un contratto da 250.000 dollari per tre anni. Falk bluffa adducendo un’inesistente offerta della Adidas per 500.000, cifra che viene immediatamente pareggiata da Vaccaro, il quale aggiunge anche una piccola royalty per ogni paio di scarpe venduto, il tutto a patto che Michael partecipi tre volte consecutive all’All Star Game e che al termine dei tre anni di contratto il fatturato della linea personalizzata da Jordan raggiunga i 3 milioni di dollari. James Jordan, chiamato al telefono dal figlio, lo spinge a firmare: un’offerta del genere non la riceverai mai più da nessuna altra parte. Chiuso l’accordo economico, ora però bisogna trovare un nome alla scarpa, il cui disegno è già quasi pronto da mesi, anche se non nella sua versione definitiva. A Falk cade l’occhio sulla linea di produzione delle solette, su cui campeggia un cartello con il nome del prodotto. Quelle solette ammortizzate (create per le calzature da corsa) vengono chiamate dai designer “Air Soles“. L’illuminazione scende sull’agente come la luce era scesa su Jake Blues in una chiesa di Chicago quattro anni prima: la linea si chiamerà Air. Air Jordan. E siccome sono le prime scarpe prodotte con quel nome, si chiamerà Air Jordan One. Il logo viene velocemente concepito da un creativo del reparto marketing della Nike, Peter Moore, autore anche del disegno della scarpa: è un pallone da pallacanestro stilizzato incastonato in un paio di ali. La combinazione di colori prescelta viene chiamata “Chicago”, perché deve ricordare la livrea della franchigia di Wind City: bianco, rosso, nero. Il successo della scarpa, però, non è affatto assicurato: anzi, prevale il pessimismo, anche perché lo stesso Michael, dopo aver visto il prototipo, esclama “Non indosserò mai quelle scarpe, mi fanno sembrare un pagliaccio!

Fino a quel momento, le scarpe da basket, e più in generale le calzature utilizzate per praticare sport, erano attrezzature specializzate, indossate esclusivamente per allenarsi o disputare le partite. Viste addosso a Michael, e promosse da uno dei più iconici spot pubblicitari della storia del marketing diretto da Spike Lee, le Air Jordan One a metà anni ’80 negli Stati Uniti diventano uno status symbol, creano dal nulla il concetto di “sneakers”, vengono indossate da tutti in tutte le occasioni, sono oggetti ambiti e desiderati, diventano un costoso capriccio di massa. A metà 1985, un anno dopo l’accordo di Beaverton che prevedeva vendite minime per 3 milioni in tre anni, le AJ1 avranno raggiunto i 130 milioni.

Lo spot diretto da Spike Lee che rese le Air Jordan un oggetto di culto di massa

Durante l’estate ’84, un paio di settimane dopo l’accordo con la Nike, Jordan viene scelto da Bobby Knight per far parte della selezione USA che vince a man basse il torneo olimpico di Los Angeles, peraltro azzoppato dal boicottaggio del blocco sovietico. Jordan, senza avversari credibili, segna 17 punti di media nelle 8 vittorie che portano all’oro e viene votato come miglior giocatore. A settembre Falk negozia con i Bulls un contratto clamoroso: 6 milioni di dollari in 7 anni, il terzo contratto NBA più ricco di sempre dopo quelli di Olajuwon e di Ralph Sampson. Il primo anno ai Bulls non è facilissimo: la squadra di Chicago non vince da decenni, ha il record peggiore della lega e gioca in un palazzo semivuoto. Ma Michael prende per mano la squadra, inizia ad invertirne l’inerzia, si impone come leader incontrastato, da rookie oltretutto un anno più giovane. Viene scelto per l’All Star Game di Indianapolis a febbraio ed a fine stagione è nominato Rookie of the Year. La prima parte di stagione, però, Michael non la gioca indossando le sue Air Jordan One. O meglio, il pubblico televisivo deve crederlo, anche perché ne va della sopravvivenza stessa della Nike ma, almeno fino alla fine del 1984, Peter Moore non è in grado di depositare il design definitivo, e Michael è costretto a giocare indossando le vecchie Nike Air Ship, già in commercio da anni e molto simili -da lontano- alle super tecnilogiche AJ1, spacciandole per le nuove sneakers marchiate Jordan. A metà anni ’80 nell’NBA vige la regola che impone a tutti giocatori di una squadra di indossare scarpe dai colori simili fra loro. Michael indossa calzature totalmente fuori dagli schemi, e questo gli costa dapprima 5000 dollari di multa ad ogni partita (pagati dai Bulls), e poi, a novembre 1984, la radiazione definitiva delle scarpe. Peccato, però, che ad essere proibite fossero le Air Ship fino ad allora indossate da Jordan, che da allora vengono chiamate “Banned” e diventano oggetto di culto per i collezionisti. Quando, all’inizio del 1985, le vere AJ1 sono finalmente pronte, la regola viene abolita, e Michael è libero di indossare ciò che preferisce.

Nike, grazie alle vendite delle Air Jordan ed all’endorsement di Spike Lee che le rende un simbolo della black culture, riprende quota e si impone in solo anno come una della aziende leader fra i produttori di scarpe sportive, ma si rivolge ad un mercato quasi esclusivamente americano. Michael, però, è destinato a diventare un’icona mondiale, almeno questa è la speranza di Sonny Vaccaro, in uno sport nel quale a dominare la scena sono ancora Magic Johnson, Jabbar, Bird, Julius Erving, Wilkins, Drexler e gli emergenti Sampson ed Olajuwon. Ma lui ha Jordan, ed è ben deciso ad usarlo per rendere Nike un marchio globale. E’ così che trasforma le vacanze di Michael in un tour promozionale, durante il quale dovrà girare il mondo, ed in particolare l’Europa, prossimo obiettivo del suo Risiko commerciale, disputando alcune partite di esibizione nelle quali indosserà le divise delle squadre locali e le Air Jordan One create apposta per i clienti del vecchio continente.

A Trieste quella del 1985 è un’estate di cambiamenti nel basket cittadino. Da un anno sulle canottiere della Pallacanestro Trieste campeggia il quadrifoglio arancione di Stefanel, il cui obiettivo è quello di crescere fino ad insidiare a Benetton la supremazia nella vendita dei maglioni colorati e quella sul campo da basket. In luglio, però, il club vede partire alcuni protagonisti amatissimi dal pubblico: Ben Coleman ci prova con i professionisti a Chicago (incrociandosi appena in palestra proprio con Michael Jordan, prima di venire scambiato), poi a Portland. Il nuovo allenatore, arrivato per sostituire Mario De Sisti, è un giovane tecnico federale alla prima esperienza in A1, il siciliano Santi Puglisi, che preferisce rinunciare all’altro americano, l’ala Tim Dillon. Rimangono Fischetto, Vitez e Bertolotti, ma il nucleo della squadra, e soprattutto la coppia di americani, è totalmente da ricostruire. Le idee, però, non sono affatto chiare. Fra luglio ed agosto si assiste ad una tale girandola di arrivi e ripartenze dall’aeroporto di Ronchi che il piccolo scalo giuliano sembra per due mesi il Kennedy di New York. Ad agosto è il turno di Otis Howard e George Montgomery: il primo convince più del secondo, il quale rimarrà a Trieste giusto il tempo per vivere un’esperienza che potrà raccontare ai suoi nipotini. Howard, invece, verrà messo sotto contratto, ma un infortunio ne interromperà quasi subito l’avventura sotto San Giusto.

L’ambiente, in quel caldo agosto, è in ebollizione, ma non certo per la calura estiva o per la girandola inconcludente di provini. Verso la fine di luglio, sul fax della sede era arrivato un messaggio che per il suo contenuto sembrava uno scherzo di cattivo gusto, non fosse altro che alla vista appariva proprio autentico: la società che curava la distribuzione delle scarpe Nike in Italia offriva un’esibizione in maglia Stefanel, a Chiarbola, di uno dei giocatori più famosi del mondo. La notizia esplode come una bomba quando il Piccolo titola “Michael Jordan alla Stefanel”, concetto che nel breve lasso di tempo intercorrente fra la lettura del titolo e la comprensione della notizia da parte dei tifosi triestini provoca orgasmi cestistici in ogni angolo della città. Il minuscolo e vetusto palasport di Chiarbola viene scelto, a scapito di palcoscenici probabilmente più consoni sparsi nel resto del continente, grazie alla sua estrema vicinanza al mercato dell’est europeo, ed in particolare a quello di un paese che di pallacanestro si ciba quotidianamente ed è in procinto di sfornare alcuni fra i più celebrati campioni che calcheranno anche i prestigiosi parquet delle arene americane. L’avversaria per l’amichevole è la Juve Caserta guidata da Boscia Tanjevic, che dall’anno successivo siederà proprio sulla panchina della squadra triestina per cercare di risollevarne le sorti dopo la retrocessione che arriverà inesorabile nella primavera del 1986.

I biglietti per l’esibizione vengono messi in vendita poco prima di Ferragosto, ed i 4500 tagliandi vanno esauriti in poche ore. Alla fine, lunedì 26 agosto 1985 nel vecchio ed afoso palazzotto di Ponziana ci saranno ben più di 5000 persone a ricoprire ogni superficie disponibile, ed anche qualcuna non disponibile. Michael Jordan era arrivato in Italia sabato mattina, si era esibito a Bormio in un 5 contro 5 con Mike D’Antoni e Roberto Premier, il giorno dopo si era spostato in elicottero a Venezia dove avrebbe voluto rilassarsi giocando a golf senza riuscirci (il golf club del Lido era chiuso la domenica), per poi trasferirsi a Trieste lunedì, un paio d’ore prima del riscaldamento. Gli accordi con la Nike avrebbero previsto che Jordan disputasse il primo tempo in maglia Stefanel, per poi giocare la ripresa con la divisa di Caserta. Mabel Bocchi, presentatrice della serata, annuncia l’entrata delle squadre, ma con sorpresa -e delusione- di tutti Michael si presenta al riscaldamento con la canottiera della Juve. Il pubblico rimane perplesso, ma è pur sempre Michael Jordan, ed a Chiarbola si scatena una delle scene di isteria collettiva più rumorose della sua lunghissima storia. Al termine del riscaldamento, nuovo colpo di scena: Michael torna negli spogliatoi e rientra in campo con la divisa di Trieste e le sue AJ1 Chicago, quelle originali disegnate per lui e non quelle destinate al mercato europeo, con la scarpa sinistra più piccola (US 13) rispetto a quella destra (US 13,5), scatenando nuovamente l’incontenibile entusiasmo dell’incredulo pubblico giuliano. Jordan, rispetto ai comprimari, è un marziano. Dopo 3 minuti e 40 secondi decolla da poco oltre la linea del tiro libero esibendosi in una “tomahawk” con la lingua rigorosamente esposta. Deposita violentemente a canestro, appendendosi per una frazione di secondo al ferro, che si sgancia immediatamente, trascinando con sè il milione di frammenti nei quali si frantuma il fragile tabellone. Le schegge colpiscono in particolare l’uruguagio Tato Lopez e Pietro Generali: entrambi saranno accompagnati all’ospedale, venendone dimessi dopo poche ore. Per l’italiano solo una ferita superficiale allo stomaco, per Lopez, invece, si rende necessaria una operazione per ricucire una brutta lesione ad un tendine del polso destro.

Sostituito il tabellone e ripresa la partita, Jordan calpesta inavvertitamente una residua scheggia di vetro rimasta a bordo campo, che rimane incastrata nella suola. Non se ne cura anche se gli dà un po’ fastidio, e continua a giocarci sopra. Si contiene schiacciando comunque, ma senza toccare il ferro. Tira e segna da ogni posizione, fa spettacolo passando la palla dietro la schiena e sotto le gambe. Al termine del primo tempo, quando dovrebbe cambiare squadra, sceglie di rimanere in neroarancio: c’è chi dice che si era divertito troppo con i giovani triestini nel pre partita, altri affermano che sia Tanjevic a non voler snaturare la sua squadra in una importante partita pre campionato. Alla fine, sarà vittoria per Trieste dopo un overtime, un 113-112 figlio dei 41 punti di Jordan e dei 29 di Howard, che si intende alla perfezione con il connazionale per tutti i 45 minuti.

Dopo la partita, all’asta di beneficenza, Bepi Stefanel si aggiudica per un milione e mezzo di lire la canottiera #23 indossata da Jordan: cimelio che molto probabilmente fa bella mostra di sé, ancora oggi, incorniciato ed appeso nel salotto buono a Ponte di Piave. C’è chi dice, invece, che a scambiare le scarpe con Jordan sia Gianni Bertolotti, che le riceve dopo che Michael ha autografato le sue Chicago, dimenticandosene all’istante. In serata Jordan viene accompagnato in fretta e furia all’aeroporto di Ronchi, dal quale ripartirà per Londra e per le successive esibizioni, di cui peraltro si è persa traccia nei decenni.

La Nike, venuta a conoscenza della schiacciata di Trieste con la quale Jordan frantuma l’unico tabellone della sua carriera, non si lascia sfuggire l’occasione commerciale, e nell’autunno 1985 realizza una versione delle AJ1 che chiama “Shattered Backboard”, colorandole di arancio e nero con la suola bianca, e con la tomaia nera in tessuto verniciato e “stropicciato” che ricorda il vetro frantumato del tabellone di Chiarbola a Trieste.

9 maggio 2020. Michael Jordan si è ritirato definitivamente da 17 anni, ne sono passati quasi 35 da quel caldissimo e surreale lunedì sera a Chiarbola. Nella sede newyorkese di Sotheby’s viene messo all’asta un paio di scarpe piuttosto particolare: sono delle Air Jordan One “Chicago” Player Sample autografate, taglia 13 la sinistra e 13,5 la destra, con una scheggia di cristallo incastonata nella suola di gomma. La base d’asta è di 100.000 dollari, con una previsione di vendita di 150.000. Il record per questo genere di articolo, fino a quel giorno, appartiene ad un paio di Nike Moon Shoe, progettate nel 1972 dal fondatore di Nike Bill Bowerman in persona, ed ammonta a 437.500 dollari. Le Chicago “triestine”, dopo innumerevoli rilanci che ne quadruplicano il prezzo solo negli ultimi venti minuti, vengono aggiudicate per 560.000 dollari proprio il giorno dell’uscita su Netflix e ESPN dell’ultima puntata di The Last Dance, documentario in cui si racconta, fra le altre, l’origine del connubio quasi casuale fra la Nike e Michael Jordan: rimangono le sneakers più costose della storia finché un anno e mezzo dopo, il 24 ottobre 2021, non verrà messo all’asta da Sotheby’s a Las Vegas un paio di Nike Air Ship “Banned” del novembre 1984 indossate da Jordan alla sua quinta partita in NBA, che per una incredibile sequenza di fortuiti eventi furono sacrificate al posto delle AJ1. Per aggiudicarsele, il collezionista Nick Fiorella sborsa 1 milione e 472 mila dollari.

Le Air Jordan One Chicago Player Sample da 560 mila dollari