A mio avviso, non è giusto che sia la proprietà a continuare a sostenere perdite finanziarie così significative, e la presunzione, qualora esistesse, che la proprietà continuerà ad accettare un onere così sproporzionato è irrealistica
Paul Matiasic, presidente della Pallacanestro Trieste, in uno stralcio dell’intervista rilasciata a City Sport raccolta da Alessandro Asta
Premessa: ci rendiamo conto che accostare in una immagine volutamente provocatoria il “villain” per eccellenza della cinquantennale storia della Pallacanestro Trieste e l’attuale munifico, ambizioso ed integerrimo deus ex machina del club sia un azzardo prematuro e tutto sommato (quasi) totalmente privo di elementi oggettivi. Ma alzi la mano chi, fra coloro che seguono le vicende biancorosse da qualche anno, dopo aver letto e riletto le parole pronunciate da Paul Matiasic in un’intervista rilasciata al magazine sportivo locale – ed in un lampo divenuta virale – non ha sentito qualche piccolo brivido scorrere attraverso la schiena. Parole che, attenzione, da un punto di vista logico, imprenditoriale e per la scelta della tempistica appaiono ineccepibili, inevitabili e coerenti: ciò nondimeno ci fanno accomodare al posto di guida di una DeLorean con il puntatore del viaggio settato sul 6 giugno 1994.

Perchè, inutile negarlo, sono parole che quasi 35 anni fa pronunciò quasi tali e quali un altro imprenditore ambizioso che pezzo dopo pezzo, e dopo essere transitato all’Inferno, aveva costruito un giocattolo bello, divertente, vincente e futuribile, un prodotto vendibile anche a livello mediatico che teneva altissimo il nome della città in Italia ed anche in Europa. Il suo scopo era evidentemente diverso da quello di CSG, e molto specifico in un’epoca nella quale il suo concorrente e corregionale spadroneggiava sul campo da basket e nei negozi di maglioni colorati. Quale fosse il motore che spinse Bepi Stefanel ad attraversare metaforicamente il Rubicone e portare la Pallacanestro Trieste a vincere in Lombardia lo scudetto meno milanese della storia dell’Olimpia, tutto sommato, non è importante: fu lasciato inesorabilmente solo, i suoi appelli, sempre più pressanti, ad una classe politica sclerotizzata ed autoreferenziale per strappare perlomeno una promessa concreta di impegnarsi nel progetto di costruzione di un palazzetto nuovo furono sepolti sotto un muro di silenzi e reticenze, di ignavia ed immobilismo che, alla fine, quel muro lo fecero crollare in macerie seppellendo per i decenni che seguirono sogni e speranze di una platea di tifosi che aveva solo sfiorato l’illusione di poter veramente, e definitivamente, diventare grande.
Sarebbe però ingiusto affermare che la grande imprenditoria triestina, che da sempre conta su rarissime realtà dal marchio e dal fatturato multinazionale, a partire proprio dal “grande tradimento” del quadrifoglio neroarancio, non sostenne mai il club garantendone perlomeno la sopravvivenza, con qualche sporadica punta di eccellenza: a raccogliere i cocci del dopo Stefanel fu la Illy, che sponsorizzò la Pallacanestro Trieste dal 1994 al 1996, a cui seguì nel biennio successivo Genertel, la neonata compagnia assicurativa on line controllata dalle Assicurazioni Generali (che oggettivamente di triestino ormai hanno ormai solo lo spettacolare Palazzo Berlam sulle Rive), la Télit a cavallo del secolo, per finire con Coop Nordest ed Acegas negli anni precedenti il fallimento del 2004. E’ vero che un’altra compagnia di assicurazione garantì la sopravvivenza del basket triestino per i tre anni successivi al disastro Alma, ma affermare che Allianz sia espressione dell’imprenditoria cittadina pare veramente un azzardo, nonostante il fatto che il motore manageriale che convinse il gruppo bavarese ad impegnarsi a Trieste fosse di estrazione giuliana e con un debole per la pallacanestro.
Al netto di tali fugaci puntelli, e reso il giusto merito alle decine di imprese medie, piccole e microscopiche che non hanno mai fatto mancare il loro limitato sostegno affiancando il proprio nome a quello del club con grande continuità nel corso degli anni, nell’ultimo ventennio il processo di desertificazione attorno all’oasi felice di via Flavia è avanzato con ritmo paragonabile a quello dell’Africa subsahariana. Le multinazionali si trincerano dietro al proposito (talvolta ipocrita) di non voler intervenire in ambito sportivo limitandosi esclusivamente al finanziamento di progetti filantropici, altri si limitano a voler accostare il proprio nome a realtà sportive ed eventi di richiamo globale, che travalica il misero orticello di casa loro. E dire che le eccezioni non mancano di certo: ciò che ha realizzato Enrico Samer nella pallanuoto, portando dal nulla tre squadre ai vertici del movimento nazionale a combattere per conquistare trofei continentali con la costruzione, anche, di uno scintillante complesso sportivo, costituisce un manifesto, una specie di manuale di come con la passione e la ferrea volontà gli investimenti portino in abbondanza i loro frutti.
Il tutto, con il tradizionale, trasversale, persistente ed imbarazzante immobilismo di una classe politica che, sebbene non possa essere investita della responsabilità istituzionale di un intervento diretto dal punto di vista economico, perlomeno dovrebbe essere maggiormente consapevole dell’universo cittadino che è chiamata ad amministrare: potrebbe riuscire così a discernere le realtà potenzialmente in grado di veicolare messaggi positivi promuovendo il nome della città in ambito internazionale da iniziative fini a sé stesse che posseggono la sola qualità intrinseca di accrescere il proprio ego e la propria (molto teorica ed estremamente volatile) popolarità. Una capacità analitica di discernimento che dovrebbe spingerli, alla fine, a rendersi interfaccia credibile e persuasiva fra queste realtà e chi i denari dovrebbe materialmente cacciarli. Caro Paul, egregio Michael: altri ci hanno provato prima di voi, arrivando semplicemente -e raramente- a scalfire solo la superficie. L’agilità dimostrata ad ogni latitudine dagli amministratori nel catafottersi sul carro dei vincitori non può né deve sorprendere, così come pretendere, o solo sperare, che i tempi e le esigenze di imprenditori pragmatici con obiettivi chiari, raggiungibili e fissati nel breve periodo possano in qualche modo conciliarsi con gli interessi palesi e reconditi della classe politica è un esercizio inutile, illusorio e privo di possibilità di riuscita.
Attenzione, però, a non cullarsi troppo nell’odioso benaltrismo di chi è convinto che le disgrazie nascano esclusivamente da errori o mancanze altrui. Anche la gente comune, il pubblico triestino, quello che si auto arroga la medaglia di miglior pubblico d’Italia, quello più competente ed appassionato, non è certo esente da cadute. Le sonore e puntuali lamentele (talvolta, addirittura, al grido di “vergogna!”) che si levano ad ogni singola presentazione di campagna abbonamenti che presenti prezzi che oltrepassino di poco la soglia della gratuità, o i fischi e le contestazioni nei fisiologici momenti di down che hanno caratterizzato anche il recentissimo passato, fanno certo parte della tradizione brontolona e mai contenta della gente giuliana -ultimamente aplificata dalla immeritata cassa di risonanza offerta dai social- ma rendono anche irrealistica, quando non proprio comica, l’ipotesi avanzata da qualcuno di una sorta di azionariato popolare di stampo spagnolo. Meglio non rischiare in proprio, meglio stare alla finestra ed, eventualmente, stigmatizzare gli errori commessi dagli altri. Siamo triestini, suvvia…
Fin qui, nulla di nuovo, nulla che un triestino nato e cresciuto a queste latitudini non abbia già ciclicamente sentito. A Trieste il “No se pol”, marchio ignominioso divenuto negli anni quasi un abusato luogo comune, alla fine dei fatti rialza sempre, invariabilmente, la propria sgradevole e maleodorante testa. Noi lo sappiamo, è nel nostro DNA, è la malinconica rassegnazione che permea chi ha scelto di non emigrare per andare a far fortuna altrove. Ma allora, cosa hanno visto nei futuristici modelli matematici elaborati alla prestigiosa Wharton School della University of Pennsylvania, una delle Business Schools migliori del mondo, i cinque studenti che dopo più di un anno di approfondite analisi scelsero di investire in questo estremo lembo di Italia dimenticato da Dio? Possibile che fra gli input della loro estenuante due diligence non avessero pensato di inserire il mood programmatico “la vita che voio xe a Barcola su un scoio”? Certo, Paul Matiasic arrivò dopo di loro, ma è perlomeno improbabile che anche lui non abbia attinto in abbondanza ai risultati di quelle matrici, le quali evidentemente misero in evidenza soprattutto le potenzialità di questa terra: potenzialità che sono reali ed incontrovertibili, una posizione decentrata rispetto al baricentro italiano ma strategica se vista in ambito continentale, un bacino di utenza che può travalicare i confini nazionali, un porto fra i più importanti del Mediterraneo, un area come quella del Porto Vecchio in grado di calamitare investimenti per miliardi di dollari. Un impianto, quello di Valmaura, che è l’esatta metafora di questa potenzialità inespressa, di questa bellezza incompiuta: capiente, bello, pieno di passione, senza una curva.
Ovviamente la risposta è no, non è possibile che i soci di CSG non l’avessero messo nel conto. Solamente, il loro obiettivo, che poi divenne quello di Paul Matiasic, è sempre stato quello di dare soluzione di continuità rispetto al passato, raccogliendo una squadra languente nelle retrovie del basket nazionale, sempre in lotta per la sopravvivenza sportiva (e per la sopravvivenza tout court) per trasformarla in breve in un prodotto che trasmette valori positivi dentro e fuori dal campo, un veicolo di onestà e trasparenza, instillato nel territorio, in perfetta comunione con la comunità, riconoscibile ed amato. E poi, la creazione di una squadra fatta di uomini scelti prima per le loro doti umane e poi, eventualmente, per il loro talento. Una volta fatto sbocciare un fiore che mai prima d’ora aveva piantato le sue radici nell’arida terra carsica, allora sarebbe stato il momento di tornare a bussare alle porte (alle casse?) della città. Naturalmente, un prodotto del genere, specie se dovesse mostrare di avere qualche chance di potersi difendere in Champions Leauge, potrebbe iniziare a far gola anche a potenziali sponsor non locali, allettati dall’accostamento del proprio marchio ad un giocattolo bello e vincente, sebbene la non “triestinità” renderebbe l’operazione una mera scelta di marketing e dunque un matrimonio difficilmente duraturo. Da ovunque dovesse arrivare il sostegno, comunque, quella del presidente è una richiesta sacrosanta, che travalica anche l’incontrovertibile evidenza imprenditoriale che il basket sorretto esclusivamente dalla proprietà forte di turno sia economicamente insostenibile e dunque sia una situazione non realistica nel medio periodo. Trieste è quindi, nuovamente, ad un bivio cruciale. Non è ancora il momento dell’allarme e della preoccupazione, anzi è il momento di godersi una stagione in arrivo che, a giudicare dalle premesse, potrebbe rivelarsi una delle più entusiasmanti di sempre. E’, però, indispensabile -e sarebbe da irresponsabili pensare il contrario, specie se si tiene alla presenza del basket di vertice in città- rendersi conto che evitare che sia anche una delle ultime, se non proprio l’ultima, è un destino ancora saldamente nelle nostre mani. Vedere la Pallacanestro Trieste vincere il suo secondo scudetto altrove, a Roma, a Firenze, a Praga o a Fiume è un’esperienza che, almeno in questa vita, vorremmo evitare di rivivere.