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Sliding door: nei prossimi quindici giorni l’Allianz deve decidere se vuole rimanere grande

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Gli spunti tecnici offerti dalla partita fra Trieste e Sassari sono molteplici e stimolanti. Possiamo analizzare tutte le infinite sfaccettature delle sfide nei vari settori del campo, dallo scontro fra gli esperti Logan e Banks, che insieme fanno quasi ottant’anni di età e sessanta di pallacanestro, all’ingaggio africano ad alta quota fra Konate e Mekowolu (sempre che il nigeriano non sia già rimpiazzato dal figliol prodigo Miro Bilan), dagli interrogativi in cabina di regia legati al rendimento di Davis opposto allo scaltro Robinson ed alle probabilità che Alexander riesca a scuotersi e prendere per mano la squadra cominciando una buona volta a sporcarsi le mani. Dal duello nel pitturato fra Delia, Grazulis e magari Deangeli contro il duo Burnell-Diop che ultimamente costituiscono, insieme, un muro invalicabile alle soluzioni approntate da Ciani & Co. per limitare un Bendzius che quando è in giornata è incontenibile perché in grado di colpire con la stessa efficacia da sotto (è un 2.07 agile e dotato di grande tecnica) e da oltre l’arco. Infine, dell’intensità difensiva che sarà indispensabile per impedire a Gentile e Kruslin di liberarsi piedi a terra dal perimetro, da dove colpiscono in modo esiziale, compito in cui dovranno dannarsi Fabio Mian, Luca Campogrande, Daniele Cavaliero.

Possiamo riempire pagine intere divertendoci ad indovinare le chiavi del match, magari analizzando la consueta presentazione istituzionale della vigilia da parte del coach. La realtà, però, non può che essere mediata dall’esperienza accumulata durante l’intera stagione: nulla, proprio nulla di quanto possa venir pronosticato alla vigilia, alla fine si tradurrà in ciò a cui assisteremo sul campo, perché il rendimento e lo stato psicofisico della Pallacanestro Trieste di quest’anno sono tanto ondivaghi quanto imprevedibili. In realtà l’andamento della partita, e di conseguenza il risultato, dipenderà dalla “voglia” che Trieste ci metterà, dalla reazione d’orgoglio innescata dalla sconfitta contro Venezia e dal conseguente shitstorm mediatico abbattutasi sulla squadra non tanto a causa dei due punti sfumati, ma per l’inaccettabile quanto inspiegabile atteggiamento rinunciatario e demotivato esibito dai biancorossi nell’ultimo triste pomeriggio domenicale.

Al di là dei proclami, la squadra dovrà dimostrare di essersi nuovamente impadronita della consapevolezza nei propri (notevoli) mezzi, rialzando la testa e ritrovando un entusiasmo ed una gioia nel giocare a pallacanestro che nessuno in città è riuscito a capire dove, quando e perché siano state smarriti. In altre parole, il “pallino” della stagione è ancora nelle mani di Trieste, in un campionato che si sta dimostrando magnanimo con i biancorossi premiandone oltremodo le imprese e perdonandone le abissali cadute, rifiutandosi di scalzarli da un quarto posto che, in caso di vittoria su Sassari, sarebbe riconquistato in solitaria. Trieste è ancora padrona del proprio destino, ma per governarlo dovrà volerlo fare: la motivazione, l’accanimento agonistico, la voglia di aggredire avversari, partita e risultato come se fosse una questione vitale (con tutto il rispetto per le questioni realmente vitali che in questo momento stanno scuotendo l’Europa, per parafrasare quanto detto da Cavaliero in sala stampa nel post Reyer) d’ora in poi saranno cifre comuni a tutte le avversarie, dalle inarrivabili Milano e Virtus alle rinnovate Sassari e Brindisi, per non parlare di quelle che stan nel mezzo fra salvezza e possiblità di conquistare i playoff. D’ora in poi nessuno regalerà nemmeno un rimbalzo, una palla vagante, una rimessa, un tiro libero. Ogni centimetro di campo dovrà essere conquistato con le mani degli avversari addosso, ogni canestro dovrà arrivare come conseguenza logica di azioni costruite con un mix di razionalità, pazienza, talento. Questa stagione ha dimostrato che chiunque può vincere (o perdere) con chiunque, a patto che concentrazione e motivazione non facciano registrare rovinose cadute.

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E d’ora in poi anche le scuse relative a rotazioni corte, infortuni, allenamenti saltati, sfighe di ogni tipo varranno meno di un tallero sloveno. A parte il fatto che il roster è tornato numericamente all’altezza nella settimana in cui sarà probabilmente recuperato anche Alessandro Lever, l’esperienza accumulata dovrebbe aver auspicabilmente insegnato qualcosa: al Paladozza la Fortitudo usciva da un lungo periodo di isolamento con due giocatori del quintetto rientrati da poche ore, eppure banchettò in testa ad un Allianz in gita sui colli bolognesi. Varese si presentò a Trieste con mezza squadra, ma mise in scena una prestazione fatta di pura cattiveria agonistica e vinse senza particolari patemi. A Pesaro in Coppa Italia Tortona si presentò senza i due play titolari, ma la bastonata che calò sulla testa dei biancorossi fa ancora fischiare loro i timpani. Per finire con una Reyer spalle al muro, in apnea di risultati e priva di quattro titolari, che difendendo quaranta minuti con le mani addosso e piegata sulle gambe, proteggendo il ferro come se fosse un fortino e trovando soluzioni offensive alternative ha rullato senza sforzo il monocorde approccio dell’Allianz. A proposito di encefalogramma piatto: è auspicabile anche una reazione da parte della panchina, il provare ad imporre soluzioni nuove nell’arco dei quaranta minuti in funzione delle situazioni contingenti, magari impreviste od imprevedibili, ma anche il tentare di sorprendere gli avversari con soluzioni inedite, magari rischiose, in grado di stimolare il monotono e per questo facilmente arginabile bitrate biancorosso. Il provare a defibrillare una squadra che in caso contrario continuerebbe con il suo ritmo compassato ed apparentemente privo di reazioni o accelerazioni ad affrontare qualsiasi avversario in ogni situazione di punteggio.

Infine l’aspetto forse più importante, anche in prospettiva: la prima partita dopo due anni che vedeva una cornice di pubblico ancora al di sotto delle potenzialità dell’Allianz Dome, ma pur sempre in forte discontinuità con il recente passato, avrebbe richiesto uno spettacolo tale da imbonirla e, magari, incrementarla grazie ad una degna esibizione, non necessariamente una vittoria, di un gruppo di giocatori in cui identificarsi nuovamente, in cui individuare un simbolo della città. La prima occasione, una sorta di rigore, è stata clamorosamente fallita, almeno a giudicare dalla disillusione serpeggiante sui social, maledetto, deviante, inattendibile ma pur sempre influente termometro del tifo. L’impressione è che quella contro Sassari e, forse, ancora la successiva partita casalinga contro la Fortitudo costituiscano veramente l’ultimo appello per recuperare un patrimonio vitale ed una imprescindibile garanzia per il futuro del basket di vertice in città. La pressione sulla squadra si alza, la responsabilità va inevitabilmente raccolta dai giocatori e dallo staff. E’ ora o mai più.