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E’ ora che la ferita smetta di sanguinare

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Eravamo tutti presenti, noi vecchi innamorati della Pallacanestro Trieste, in quello che andrà agli annali come il più mesto pomeriggio che Chiarbola abbia mai vissuto.  Con le spalle rivolte al campo durante la presentazione di coloro che erano stati i nostri idoli, quelli che si erano piantati proprio sul traguardo (a dire tutta la verità, sul secondo ferro di uno dei canestri del vecchio palasport di Pesaro) solo pochi mesi prima, ma che erano stati capaci di sfidare Salonicco nella finale di Korac, che avevano battuto la Virtus a capodanno grazie ad un tiro dagli spogliatoi lasciando quattromila persone senza voce, che avevano portato un giovanissimo play serbo a ridicolizzare un incredulo Tony Kucoc, che solo un paio di anni prima ci avevano illuso per bocca del loro coach montenegrino ebbro di gioia dopo una promozione con un profetico (ma, alla luce dei fatti, poco giuliano) “normalmente scudetto!”. 
Ma, anche, quelli che di lì a pochi minuti avrebbero surclassato senza sforzo apparente, in un crescendo di ostile frustrazione da parte nostra, i pochi superstiti ed i modesti surrogati che l’era Stefanel aveva lasciato su quel vetusto parquet come briciole dopo un’abbuffata natalizia.  A quel punto, fissando ostinatamente la schiena del  nostro vicino di posto mentre lo speaker elencava con tono mesto “per Milano entra in campo, con il numero quattro! Deeejan Boodiroga…” ci eravamo già sbarazzati, lanciandole ai piedi dei “traditori”, di tutte le vestigia nere e arancioni, portatrici sane di una dolorosa e beffarda memoria, di una vana illusione che per qualche anno ci aveva fatto sognare. 

Non che oggi ci sia da andarne particolarmente fieri. All’epoca, per la verità, ci pareva l’unica reazione giusta da avere, l’onta del tradimento andava in qualche modo lavata, la frustrazione doveva rumorosamente trovare qualche colpevole da odiare. Ma quei ragazzi che si riscaldavano visibilmente turbati, con la loro casacca rossa identica a quella che avevano indossato l’anno precedente (ma con una quasi impercettibile, fondamentale differenza cucita sul petto), noi li avevamo veramente amati. Ed eravamo stati amati da loro. Dopo tanti anni, è quasi ovvio pensare che, loro, lo scudetto che erano destinati a conquistare l’anno successivo in Lombardia avrebbero di gran lunga preferito vincerlo a Trieste. Boscia Tanjevic, peraltro, a Trieste non ha mai smesso di viverci… 

Semmai, se di “tradimento”, di “colpa” si può ancora parlare, va eventualmente ricercata a Ponte di Piave, nelle ambizioni di un imprenditore che, impegnato in una guerra commerciale che non poteva vincere con il suo storico rivale biancoverde, aveva bisogno di una ribalta internazionale, di un palcoscenico prestigioso ed affermato, di una risonanza mediatica che in terra giuliana non avrebbe neppure potuto sognare. Va ricercata anche nell’immobilismo politico che permeava quegli anni di crepuscolo della Prima Repubblica: nel vetusto e comodo “no se pol” tipicamente triestino che negò a Bepi Stefanel anche la speranza di poter avere a disposizione, un giorno, almeno un palazzo dello sport adeguato ai cospicui investimenti ed all’ambizioso progetto che stava realizzando nella pallacanestro nostrana. 

Milano, in quella vicenda, tutto sommato fu parte “passiva”: certo, l’arrivo di una siffatta corte di campioni, di un coach fra i migliori in Europa, di un marchio allora prestigioso, di una squadra già rodata, unita, vincente, non fu naturalmente osteggiato. Il trapianto, però, non fu mai completamente interiorizzato dalla città lombarda, che rispose solo con tiepido entusiasmo: del resto, “Stefanel Milano” suonava allora un po’ come “Benetton Bologna” o “Scavolini Treviso”…un accostamento, se non alieno, perlomeno cacofonico. Per l’Olimpia fu anche l’inizio di un lento declino, che dopo l’effimera conquista (peraltro non immediata) del titolo italiano e di una Coppa Italia la tenne lontana dall’albo d’oro per 18 lunghi anni, addirittura fino al 2014. 

Da allora, da quel triste pomeriggio di gennaio del 1995, il mondo del basket, la storia di queste due società e delle aziende che ne decidevano i destini si sono più volte capovolti. C’è intanto da dire che nei successivi 9 anni le strade di Trieste e Milano si sono nuovamente incrociate per altre 13 volte, e che l’”onta” è stata lavata dai biancorossi triestini per ben 6 volte, una addirittura a Milano nel 2002. Intanto, le illusioni di Bepi Stefanel e le sue scelte sportive si rivelarono un grattacielo di cartapesta: una delle più forti squadre della pallacanestro italiana nell’era moderna non tardò a dissolversi, la diaspora europea dei suoi protagonisti si materializzò in pochi anni. Oggi, la Stefanel Spa, uscita malconcia dalla guerra dei maglioni colorati, che come previsto non aveva modo di vincere, naviga in acque agitate tanto da rischiare concretamente il naufragio. 

E dire che fra la Pallacanestro Trieste e l’Olimpia Milano c’è una sorta di fil rouge, simile a quello che ci fu, nel calcio, fra la Triestina ed il Milan di Rocco e Maldini. La squadra di pallacanestro meneghina acquisì, infatti, l’attuale denominazione solo nel 1947. Mosse i primi passi nel 1936 sotto il nome di… Triestina Milano. Alcuni triestini fanno parte della sua leggenda, da Cesare Rubini (cui oggi è intitolato il palazzo di via Flavia) a Giulio Iellini e Gianfranco Pieri, che proprio sotto la guida di Rubini dettero vita all’epopea delle “Scarpette Rosse”, la Simmenthal degli anni ’60 che dominò la pallacanestro europea. 
In tempi più recenti, subito dopo il rovinoso fallimento del 2004, migrò verso la sponda milanese, dove rimase per due stagioni acquisendo quella sicurezza e quella esperienza che contribuirono a donargli una carriera prestigiosa e vincente, anche uno dei più amati (anzi, senza dubbio il più amato e coccolato) fra i protagonisti della  Pallacanestro Trieste di oggi: Daniele Cavaliero

Il nuovo palazzo, il fallimento, le sofferenze, le delusioni, le gioie, le attese, i timori, ed infine le promozioni, l’ascesa, l’arrivo di una proprietà entusiasta e generosa, il ritorno in serie A, i sold out, il red wall, la costruzione di una squadra che è tornata a farci sognare: sono cicatrici nel nostro cuore e tappe della nostra storia sportiva che dovrebbero, oggi, permetterci di metabolizzare il trauma, di riporre il rancore nel cassetto dei ricordi (non nell’oblio, quello mai) e di dedicarci, finalmente, a guardare a domani. E’ ora, alla fine, che quella sanguinosa ferita si rimargini.

Questa mattina eravamo nella sala stampa dell’Allianz Dome ad assistere alla presentazione di Zoran Dragic. C’erano decine di giornalisti, operatori, fotografi. Lui, faccia pulita, sorridente e felice di essere arrivato a Trieste, consapevole della sua forza, del suo pedigree da top player, a suo agio a livelli di eccellenza ed abituato alla ribalta mediatica. Siamo entrati in una nuova era. Ho chiuso gli occhi. Ho ripensato a quel giorno, a quando con l’animo pieno di rabbia e delusione mi rifiutavo di guardare il campo. Ed ho capito che, oggi, il cerchio si è chiuso
Bentornata Olimpia, questa volta ti aspettiamo guardandoti dritta negli occhi.